7 settembre 2015

«Il discorso amoroso. Conversazione con Cristiana Cimino», di Doriano Fasoli

Cristiana Cimino, psichiatra e psicoanalista di formazione freudiana e lacaniana, esercita a Roma. Membro associato della Società Psicoanalitica Italiana (SPI), ha scritto numerosi testi per riviste specializzate, sia italiane che straniere. È stata co-editor per anni dell’European Journal of Psychoanalysis. Si occupa da tempo del pensiero di Elvio Fachinelli. La presente conversazione prende spunto dall'uscita del suo recente studio Il discorso amoroso. Dall’amore della madre al godimento femminile, pubblicato in questi giorni per i tipi manifestolibri.

Doriano Fasoli: Dottoressa Cimino, il titolo del suo libro Il discorso amoroso. Dall’amore della madre al godimento femminile riecheggia quello assai noto di Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso… C’è un qualche collegamento?

Cristiana Cimino: Si tratta, evidentemente, di una citazione che in qualche modo vuole essere un omaggio al pensiero di un autore che ha accompagnato la mia storia e la mia formazione. Il suo Frammenti, sebbene sfortunatamente abusato, rimane un testo unico, che si colloca – o meglio, non si colloca – in un territorio di confine, e dunque fertile, tra letteratura, filosofia, semiotica, psicoanalisi: e potrei andare avanti, con la grazia disinvolta propria di Barthes. Il mio testo è costruito in modo molto differente, ma, egualmente, cerca di cogliere alcuni nuclei del discorso amoroso.

Su cosa poggia il discorso amoroso?

La mia ipotesi è che abitualmente il discorso amoroso, ossia la forma inconscia che prende il legame amoroso tra gli esseri umani, si fondi sulla ricerca dell’eguale, del già noto, di ciò che riporta a sé, al di là della scelta di genere. Questa esclusione del reale dell’Altro è il tentativo di non ingaggiarsi con i suoi aspetti estranei, dissonanti, che sempre sfuggono e provocano angoscia. Se si riesce a sostenerla si apre la possibilità di fare un legame in cui l’estraneità dell’Altro diventi una risorsa, forse l’unica, di entrare davvero in rapporto. Questa è l’altra forma di discorso amoroso ipotizzabile, se ci risolve ad abbandonarci all’Altro e al potenziale spaesante di cui è portatore.

«A letto c’è sempre calma piatta,» affermava Lacan… Cosa intendeva dire?

Il punto è che l’atto sessuale, il godimento in quanto tale, non è di per sé segno d’amore, per questo non c’è rapporto sessuale e dunque, dal lato dell’amore, a letto c’è calma piatta, c’è solo godimento dei corpi. Qui Lacan rimanda all’insufficienza del fallo che, incredibilmente, è proprio l’ostacolo all’amore. Esso concentra in sé tutto il godimento, godimento fallico, appunto, che, come dirà Lacan chiaro e forte nel Seminario XX, non ha a che vedere con l’amore. La scommessa è quella di andare oltre il registro fallico e attingere a un altro godimento, quello femminile, che ha più possibilità di sperimentare quell’assoluto che è l’amore. Il termine femminile non è riferito a un’appartenenza di genere ma a una posizione psichica e direi etica che anche un uomo può assumere.

Cosa l’ha spinta a pubblicare questo libro oggi?

In parte il semplice fatto che, lavorando sul tema da tempo, desideravo separarmi dal prodotto di questo lavoro. Ma soprattutto perché ho l’impressione che oggi ancora più che in altri momenti storici la questione del rapporto tra i sessi sia urgente. Il cambiamento su quel piano non è un lusso, come si potrebbe pensare, a fronte di altre priorità, è una priorità in sé. Persino Marx ne era convinto. Oltre la sua ‘impossibilità’ – il non c’è rapporto sessuale di Lacan – mi è sembrato di cogliere, nella mia pratica clinica, una domanda di novità, di apertura a possibilità di fare un legame d’amore che si collochino altrove rispetto al modello incestuoso, endogamico, così come ho cercato di riportarlo nel libro. Valeva la pena raccoglierla.

6 settembre 2015

«James Joyce, Molly Bloom e Madre Natura» di Nicola d'Ugo

Constantin Brancusi: Simbolo di James Joyce

Un’idea è impressa in Ulisse di James Joyce: il movimento. La staticità è omessa e se Joyce indugia nel descrittivismo più capillare, anche il dettaglio ricade nel buco nero d’una mera accidentalità. È una questione di contesto, che in Joyce è ribaltato rispetto ai ready-made di Marcel Duchamp. Quest’ultimo estraeva dal contesto ciò che era immanente e contaminante nella sua suggestività, così che l’oggetto potesse apparire nel suo isolamento anatomizzato. Joyce fa la stessa cosa, ma al contrario: senza oggetti, con le parole, ossia coll’astrazione referenziale, l’arbitrarietà denominativa e l’espressione menzognera riposta nel cuore pulsante d’ogni principio semiotico.

In Joyce c’è la contaminazione e l’influenza subliminale che è presente nei primi lavori di Duchamp, ma anziché astrarre gli oggetti della quotidianità dal loro valore d’uso, lo scrittore irlandese affonda le radici del pensiero nell’intrico inestricabile del linguaggio, in una semiosi tendente all’infinito, senza dar la possibilità all’ermeneuta di chiudere il suo magico cerchio del senso. O meglio: glielo permette, ma limitatamente. «It is impossible to me to write these episodes quickly» («Mi è impossibile scrivere questi episodi velocemente»), si giustificava Joyce nel 1920 con chi gli chiedeva una più celere stesura di Ulisse. E aggiungeva: «The elements needed will fuse only after a prolonged existence together» («Gli elementi necessari si fonderanno solo dopo una prolungata coesistenza»).¹ Joyce colloca gli oggetti in contesti fittissimi e strutturati, finché si slaccino da sé, ipostatizzandosi, per poi riaffiorare altrove in una precarietà semiotica in cui prende corpo il nerbo animista e psicologista e poi non c’è già più.

Occorre contestualizzare la letteratura: sempre. Non che sia da offrirgli di necessità il suo territorio nell’ampia cornice storica in cui l’opera è stata realizzata. Sarebbe poca cosa questo slancio laborioso e meritorio. Il contesto lo dà il lettore: cosa mi sta evocando questo testo che ho sotto il naso, sia esso il mastodontico, filosofico e dolcissimo Guerra e pace di Lev Tolstoj o un’accorata, delicata poesiola tutta rime dell’intimista Giorgio Caproni? Virginia Woolf s’è piegata anima e corpo nell’intento di far del testo un mero (ma fondamentale) ponte tra lo scrittore e il lettore: un ponte tremolante su acque agitate, si potrebbe dire.

James Joyce rende al sommo grado questa impresa. Prima c’è il testo, sì, ma il testo non è il fine della scrittura, non è il luogo epigrammatico e monumentale d’un atto autoritario dell’autore, la monologica dettatura di ciò che debba dirsi del mondo contemporaneo. Al suo fondo, al di là dell’occhio mobile del testo, c’è il lettore, la sua attività costruttiva, le sue potenzialità nel far luce sui mille e più misteri di Ulisse.

Joyce contestualizza e poi via: ciò che è stato collocato in un luogo riappare magicamente ad illuminarne un altro. Delle idee dell’autore e delle aspettative del lettore non c’è che una pallida traccia. La letteratura smette di essere espressionistica, di modellare attraverso i lieviti della forma le idee preliminarmente approntate per uso e consumo d’un lettore che voglia identificarsi con la condizione umana di un altro uomo: lo scrittore che darebbe voce ai sentimenti del lettore. Non è stato sempre così o quasi? Se La divina commedia secondo Michail Bachtin o l’Amleto per Harold Bloom costituiscono il primo momento ‘moderno’ segnato dall’autocoscienza del personaggio, Ulisse costituisce forse il primo momento dell’autocoscienza del lettore: il lettore abbandonato a se stesso e ai suoi dubbi di fronte al testo letterario.

Per far questo Joyce usa le concomitanze polisemiche: una stessa parola non ha solo più significati, ma più territori semantici cui si riferisca. Prendiamo la «carne in scatola» di cui va pazza Molly: un barattolino di potted meat i cui residui si trovano anche nel suo letto alla fine della giornata (U 17.2122-25). Questo lessema sintagmatico ha un significato osceno e non c’è niente da fare: qualsiasi tentativo di edulcorare il romanzo di Joyce, di parlar per eufemismi e perifrasi, arrampicandosi sugli alti pioli d’una critica contegnosa e garbata, non può che veder molto alla lontana, come un puntolino sulla terra, l’indecenza saliente di questo libro, che non a caso, seppur poco compreso nella sua oscura articolazione stilistica, ha subìto tredici anni di censura in America.

A Molly piace la carne in scatola perché le piace fare sesso. Pot, così come la ‘grotta’ da cui è nata Molly («caved mountain» è uno dei significati dell’antica denominazione di Gibilterra secondo O’Shea, dal quale Joyce trasse spunto)², così come il vaso da letto su cui Molly passa metà della nottata, non sono che alcuni oggetti cavi d’una lunga lista riconducibili a Molly per metonimia e metafora insieme: chamber si riferisce al pitale e ad una stanza, per cui «chamber music» è sia la ‘musica da camera’ che Molly, cantante lirica, esegue, sia – proprio così! – la pisciatina sonora dell’eroina in «Penelope». Flussi, appunto: alimentari, discorsivi, concomitanze polisemiche, toccate e fughe della penna incontenibile e incontinente di James Joyce. A continuar l’elenco degli oggetti cavi riconducibili a Molly non si finirebbe più la lista. E son tutti, si direbbe, importanti.