29 dicembre 2011

«Conversazione con Alfonso Berardinelli» di Doriano Fasoli


Doriano Fasoli: Berardinelli, quali sono le prospettive della critica del nuovo Millennio? Che futuro ha la critica? Può indicarmi i nomi e le linee di tendenza su cui scommettere?

Alfonso Berardinelli: Di solito non faccio altro che nominare gli scrittori che preferisco. Non ho altra religione, nessun altro ‘credo’. È tutta una questione di amore e odio. La critica in fondo non ha altri moventi. Le linee di tendenza su cui scommettere sono, per me, semplici e vaghe. Si tratta di capire e perfezionare, credo, la propria singolarità, dato che siamo, irrimediabilmente, dei singoli imperfettamente, provvisoriamente socializzati. La propria autenticità (se c’è) va recitata (dato che bisogna esprimerla). Oggi, in fin dei conti, mi sento una specie di anarchico radicale che per discrezione recita da scettico liberal-democratico… Ma queste categorie suonano sempre un po’ enfatiche e deformanti…

Secondo il filosofo-scrittore Emilio Garroni, interpretare testi narrativi è un’operazione complicata, non mai risolta completamente dalla critica. «Certamente egli ha avuto occasione d’affermare nel corso di una nostra conversazione – interpretare testi narrativi significa, da una parte, anche svelarne quella comprensione globale che essi suppongono o esprimono implicitamente. Per dirla con un’espressione che detesto: ‘la concezione del mondo’ supposta dall’autore o dall’ambiente da cui proviene. D’altra parte però significa anche seguire e riesporre il filo della narrazione, in quanto racconto di eventi e di azioni, descrizione di personaggi e di situazioni. Ebbene, io credo che entrambe le operazioni siano per se stesse insufficienti: la prima, come dicevo, trascura il tratto peculiare della narrazione, la sua temporalità; la seconda sacrifica alla temporalità quella comprensione che rende possibile una narrazione e rischia di risolversi in un descrittivismo insignificante, oltre che unilaterale». Lo sforzo, secondo Garroni, sarà quindi di mostrare che nel paradosso dell’interpretazione narrativa comprensione e narrazione per un verso si richiamano a vicenda e per altro verso si escludono. «In altre parole: bisogna, sì, comprendere un romanzo, ma anche guardarsi dal trasformare questa comprensione in un suo equivalente filosofico o ideologico. Dovremmo piuttosto ripercorrere la storia interna della comprensione che il romanzo suppone e provoca. Del resto comprendere e narrare dipendono dalle due coordinate fondamentali del nostro esperire: il cogliere con un colpo d’occhio l’intera nostra esperienza possibile nei suoi tratti necessari, come se fosse perenne e noi fossimo immortali, e nello stesso tempo coglierla nella sua temporalità, nel suo non essere da sempre, nel suo essere radicalmente contingente, quali noi stessi siamo». È d’accordo? Che cosa vuol dire per lei interpretare testi narrativi?

Trovo interessante questa distinzione di Garroni. E la condivido. Diffido della pura «comprensione» se si esprime nelle forme della sintesi intellettualistica, perché ogni opera d’arte (ma anche ogni fatto, fenomeno, esperienza e forma vivente) è irriducibile al suo concetto. Ogni comprensione e interpretazione è il risultato di un qui-e-ora, è circostanziale. Può cambiare non appena se ne sentirà il bisogno. Non c’è niente di totalmente immobile neppure nei valori più forti e nelle più grandi opere della tradizione culturale. Per questo la critica militante ha sempre valore retroattivo. Se uno studioso seriamente accademico prende per buoni dei cattivi autori contemporanei, dobbiamo dubitare anche della sua comprensione dei classici. Evidentemente non li ha capiti, non hanno agito su di lui. Si è limitato a studiarli per puro (e cieco) dovere professionale. In questo senso, esplicitamente o implicitamente, tutta la critica è militante, e non può illudersi di trovare rifugio e certezze nel passato. È il presente, infatti, che custodisce o distrugge il passato. Anche se spesso per custodire bisogna sospendere l’idea di una continuità garantita.

La via che porta ai classici non è una linea retta, è uno zig-zag o un labirinto… Comprensione e narrazione, mito e logos non devono escludersi. I migliori critici sono delle menti logiche, ma anche mitografiche. Il critico incapace di vera ammirazione diventa facilmente un puro amministratore di beni immobili.

Tendo a credere che raccontare sia solo uno dei modi per interpretare ciò che è avvenuto o avviene. Si racconta quando non si riesce a interpretare per concetti, o quando la sola logica degli eventi è la loro concatenazione di fatto, la catena dei prima e dei dopo o il rapporto di simultaneità, del tipo: «Pensò questo e fece quello»; oppure: «Mentre faceva quello, pensava questo».

La mente del critico è di solito più interpretativa che narrativa. Interessante però non è tanto fornire formule o esibire strumenti analitici, quanto fare la storia del (proprio) processo interpretativo. Ogni concetto contiene e nasconde un racconto, un percorso mentale che si dovrebbe rendere esplicito.

Si tratta di capire che la scientificità delle scienze storico-ermeneutiche non è la stessa di quelle empirico-analitiche. La critica, comunque, può fare l’una cosa e l’altra: descrivere casi singoli e indagare leggi generali, essere idiografica e nomotetica, fare il ritratto di un autore e studiare le trasformazioni di un genere letterario o di una poetica.

Quali sono, secondo lei, le vere qualità del saggista letterario? L’immensa cultura? Il desiderio di possesso, il dono analogico, l’arte delle connessioni, una sottigliezza persino tortuosa, la freddezza mentale, il fiuto del poliziotto che insegue dovunque le tracce del criminale, il dono psicologico, quello che Poe chiama «il metodo» di Dupin?

Stavo cominciando a parlare proprio di questo. La saggistica è la forma sperimentale della prosa di pensiero. È il contrario del trattato. Comunque, come in altri generi letterari, le qualità del saggista cambiano da un autore all’altro. Ci sono saggisti in cui l’immensa cultura, al limite dell’erudizione, fa pensare ad una vocazione enciclopedica. Questo demone enciclopedico, la curiosità, il camaleontismo, il gusto della pluralità e della molteplicità, il libertinismo intellettuale si trovano nella maggior parte dei saggisti, soprattutto nei critici letterari o d’arte. È il bisogno di uscire da se stessi per entrare in altri mondi o microcosmi individuali: è un infilarsi e intromettersi nella vita altrui, in altre forme mentali e fisiche di vita.

Ma c’è anche il polo opposto. Non la curiosità e la mobilità, ma la fedeltà, l’aderenza a quello che si è e a quello che davvero interessa. Da un lato la curiosità enciclopedica e libertina, dall’altro l’idiosincrasia dei gusti e delle ossessioni, la dedizione ai propri piaceri e alle proprie necessità intellettuali, morali, estetiche, politiche… Sì, probabilmente la formula potrebbe essere la combinazione di virtuosismo intellettualistico e di fedeltà autobiografica. Cose che si notano chiaramente (e originalmente combinate) in saggisti come Mario Praz, Walter Benjamin, Giacomo Debenedetti, Edmund Wilson, Viktor Šklovskij, Leo Spitzer, Roland Barthes, fino a Starobinski e Steiner. Sembra sempre che dimentichino se stessi per correre dietro a ogni stimolo, sollecitazione, avventura, idea, storia. Ma poi ci si rende conto che cercano dovunque se stessi. Scrivono la propria autobiografia per interposte persone. Parlano di sé parlando d’altro e di altri…

E come dev’essere la prosa di un saggista?

La prosa di un saggista, come quella di ogni altro scrittore, è modellata dal carattere di queste avventure sperimentali. Per parlare di altri autori il critico deve essere camaleontico e mimetico come un attore: passivo e in apparenza «senza carattere». Ma oltre che attore, un critico è anche il regista e lo stratega di se stesso. Quindi si notano spesso, nella critica saggistica, visioni panoramiche, da fuori, da lontano e dall’alto. E ricerche speleologiche dentro i labirinti, i sotterranei di un autore o di un’epoca. La cosa che trovo più appassionante è proprio il mutamento stilistico, il cambio di marcia, di ritmo, di ottica. È vedere un fenomeno letterario e culturale ora da un punto di vista e ora da un altro, facendolo ruotare come un poliedro. Per questo credo che sia inevitabile un certo eclettismo teorico e metodologico. Non importa da dove si parte e dove si arriva (dati formali, ricorrenze tematiche, episodi biografici, idee fisse), quello che forse è più durevole nella prosa saggistica di un critico è il ritmo intellettuale, la musica della conversazione-racconto.

Qual è precisamente il ruolo di un critico militante?

Non so se il critico militante ha un ruolo preciso. Ciò che lo definisce è l’intensità polimorfica del suo rapporto con i fenomeni letterari, non in quanto dati o fatti, ma in quanto processi, implicazioni mobili. Il critico militante agisce nel presente. Il presente è il suo punto di vista e il suo luogo. E il presente è per definizione inafferrabile e fluido, variabile, imprevedibile.

Il critico militante può essere influente o ignorato, può esercitare un notevole potere sull’ambiente culturale o invece essere quasi ignorato e mal tollerato, un outsider, una specie di intruso… Ma non conta il suo prestigio, la sua influenza. Conta il suo contatto con quello che avviene, conta l’intensità delle sue valutazioni ermeneutiche.

Alcuni critici sono stati considerati importanti subito: è il caso di Belinskij, Sainte-Beuve, De Sanctis, F. R. Leavis, T. S. Eliot, Sartre, Barthes. Altri invece hanno avuto difficoltà ad essere accettati, sentivano quasi di non esistere e la loro importanza è stata riconosciuta solo più tardi. Benjamin e Debenedetti, per esempio, hanno avuto una fortuna prevalentemente postuma. Il critico-storiografo, il critico-filologo, il critico-filosofo di solito hanno più fortuna: il loro talento, la loro intelligenza, il loro stile agiscono attraverso certe potenti protesi professionali, dottrinali, ideologiche. Il critico che è invece pura intelligenza critica, puro e semplice stile intellettuale, è più difficile da riconoscere. Ed è più irritante. Sia Benjamin che Debenedetti vennero respinti dall’università, sembravano degli inconsistenti dilettanti, senza teoria e senza metodo… È interessante che anche Edmund Wilson, che pure scrisse libri piuttosto organici come Il castello di Axel e Stazione Finlandia, si definiva «giornalista», come dire scrittore d’occasione e al servizio del presente…

I saggisti non professionalizzati, senza una precisa appartenenza istituzionale e di genere, come per esempio Karl Kraus e Simone Weil, restano autori da conventicola: nelle storie della letteratura e della filosofia vengono considerati marginali o spariscono del tutto.

L’autore di libri comunica di solito assai male, sommerso da altri media e dalla stessa quantità di libri pubblicati. Se vuole comunicare largamente, è costretto spesso a fare troppe concessioni. Se non vuole farle, deve quasi sempre accontentarsi di circuiti medi o piccoli, quando va bene… Pensa di poter condividere questa opinione?

Gli articoli di giornale sembrano sempre effimeri, indipendentemente dal loro valore. I libri degli universitari si presentano invece come solidi e durevoli, anche se non lo sono. Ogni canale e sede, università o giornali, ha il suo codice e le sue regole, che esercitano spesso una censura indiretta e implicita, o inducono chi scrive a una certa autocensura non del tutto consapevole. I testi articolati e complessi non hanno vita facile oggi. Credo che la forma saggistica in senso proprio stia diventando, salvo eccezioni, poco adatta alle modalità comunicative dominati. Un saggio è qualcosa di intermedio fra il libro e l’articolo di giornale e di solito non si sa dove e come pubblicarlo. Il luogo ideale sarebbero le riviste e i periodici, che ormai stentano a sopravvivere, hanno pochi lettori, hanno perduto il prestigio di un tempo. Devo dire che la forma saggistica mi attira anche per il suo anacronismo, per la sua inattualità. Oggi siamo sommersi dai best seller narrativi e dalla pseudosaggistica dei peggiori giornalisti, magari televisivi. Resta vero, comunque, che fra Letteratura e Comunicazione globalizzata non ci sono rapporti facili.

Fino alla metà del Novecento, fino agli anni Sessanta, la consapevolezza di questa difficoltà c’era, era perfino estremizzata e drammatizzata polemicamente. Il successo mediatico, almeno in Europa, per uno scrittore non era una mèta, era quasi un incidente di percorso. Oggi gli autori che non hanno mai scritto un best seller si sentono umiliati… Si è passati dall’esoterismo programmatico alla comunicazione totale e immediata. Da un estremo all’altro. I romanzi devono essere facilmente consumabili. La stessa voluminosità abnorme della maggior parte dei best seller suggerisce che la lettura dovrà essere veloce. Altrimenti non si capirebbe perché tutti si spaventano a leggere Dostoevskij e si buttano tranquillamente su Stephen King.

Oggi quello che si chiede nelle facoltà o nei dipartimenti di Scienze della Comunicazione è che la letteratura sia comunicazione facile, immediata e di massa. Anche gli autori più giovani si stanno abituando a questo. Non credo però che il successo mediatico possa essere scambiato per comunicazione. O meglio, bisognerebbe vedere che cosa si sta comunicando. Il successo, anche quello letterario (e perfino filosofico), è spesso un fenomeno esoterico. Comunica se stesso, senza comunicare molto di più. Puro magnetismo. O semplice ipnosi. Un libro di successo moltiplica velocemente il suo successo, anche se non piace propriamente a nessuno. Consumare prodotti culturali di successo fa sentire il consumatore meno solo, lo fa sentire parte di una confortevole moltitudine. La solitudine, che è stata a lungo il concime delle arti, oggi fa sempre più paura. Tutti i nuovi media danno anzitutto compagnia…

Diceva Cézanne: «Non bisogna chiedere a un artista più di quanto possa fare, né al critico più di quanto possa capire»; e Bloy: «i critici sono quelle strane persone che si ostinano a trovar domicilio in un letto altrui»… Cosa ne pensa? Secondo lei, la critica dovrebbe evitare le astrazioni e, per così dire, cominciare da qui?

Sì, i critici si ostinano a formulare obiezioni e diagnosi. Anche quando il loro oggetto o punto di partenza e di applicazione è un’opera d’arte, il critico legge nelle forme artistiche dei modi di essere. Così un’intera società o cultura diventa percepibile dentro un testo, una storia, una serie di immagini. La vocazione (o la pretesa) del critico è di capire tutto, di capire il più possibile anche partendo da pochi dati e da pochi elementi, da una base empirica ristretta. Si parte dal concreto, dalla cosa, dal qui e ora, dall’occasione. E magari si arriva a qualche valutazione e conclusione generale. È il contrario di quello che di solito fanno i filosofi. In realtà anche i critici sono a loro modo dei filosofi, solo che usano altri procedimenti, un metodo diverso. Partono dall’attenzione prolungata ai fenomeni, non puntano a definire essenze. Il «pensiero essenziale» e le filosofie essenzialiste tornate di moda negli ultimi decenni si fanno la vita facile. Invece di guardare e descrivere un albero analizzano il seme. Così la percezione sensoriale viene addormentata, si atrofizza. Per capire, si chiudono gli occhi… È una vecchia storia, ahimé sempre attuale…

Per qualcuno una recensione dev’essere l’equivalente di un pot de confitures… Per lei, qual è il senso della recensione?

La recensione è un genere letterario e un’arte. Però bisogna mettercela tutta, bisogna sempre guardarsi dalla routine e dal mestiere. Per questo di solito i narratori e i poeti che scrivono recensioni non fanno molto sul serio. Il centro dei loro interessi è altrove, è nelle poesie e nei romanzi che hanno scritto e che scriveranno. Se fanno recensioni è per guadagnare soldi e per tenersi in contatto (in buoni rapporti) con l’ambiente letterario, editoriale, giornalistico, universitario. Solo un critico che è solo un critico si mette totalmente in gioco recensendo libri. Non ha alibi. Oggi però i critici sono pochissimi e i recensori sono una marea che li sommerge. La simil-critica esiste per rendere invisibile la critica e disinnescare il suo eventuale potere. Non dico che l’informazione culturale non serve. È utile, però, solo se è onesta e modesta. Invece l’informazione mira proprio a costruire quei miti che poi il critico deve smontare. Una fatica di Sisifo…

Ha avuto occasione di affermare, in passato: «Penso che la critica sia un genere letterario che richiede immaginazione e inventività. Oggi, come ogni altro scrittore, il critico deve ridefinire anzitutto davanti a se stesso i termini della propria attività e del proprio stile intellettuale. La distinzione tra creativo e non creativo mi sembra fuorviante». Perché dunque le sembra fuorviante?

È una distinzione fuorviante perché nessuno crea da nulla. Anche interpretare è inventare. Molta narrativa e poesia, per la verità, è sempre stata rifacimento e ripresa, cioè interpretazione critica di opere precedenti. Marcel Proust è un grande critico e Francesco De Sanctis ha letteralmente inventato la letteratura italiana… La distinzione è di stile, di metodo, di materia, di genere letterario. Catullo e Leopardi nelle loro poesie non inventano, non creano nella stessa misura e maniera di Rabelais e Cervantes. La maggior parte della poesia lirica è fuori dalla fiction, registra con precisione stati emotivi e mentali. E del resto, in pittura, la ritrattistica che cosa fa se non inventare un volto che già esiste?

Ad un certo punto si è accorto che nella postmodernità si moltiplicavano e si riproducevano degli «stili dell’estremismo». Così, per farsi capire, isolando solo qualche esempio fra i molti possibili, ha pubblicato il pamphlet omonimo… Me ne vuole parlare?

Si tratta, sia letterariamente che intellettualmente, del mito dell’Essenza che riassume e condensa (rende trascurabili) i fenomeni. Si tratta dell’idea di «andare coerentemente fino in fondo». Ma il fondo non c’è e la coerenza logica a tutti i costi trascura la storia, le storie, i singoli. Fa violenza ai fatti. Credo che gli stili dell’estremismo abbiano sempre qualcosa di involontariamente caricaturale. Filosofi come Severino e Cacciari non fanno che parlare di alpha e omega, dell’inizio e della fine, dell’Origine e dell’Apocalisse, di Essere, Nulla e Divenire… Il loro stile è diverso, perché Severino è sempre logico fino all’assurdo, mentre Cacciari parla per citazioni, non fa un ragionamento, crea suggestioni, terrori, brividi… Sono due caricature di una caricatura come Heidegger, contro cui Adorno scrisse un ottimo pamphlet, Il gergo dell’autenticità. La metafisica e l’ontologia sono come il chewing gum: si mastica e si mastica, ma non si può ingoiare niente… Alla fine, però, bisogna sputare. Vorrei che ci si decidesse, una buona volta, a sputare l’essenzialismo diventato insipido…

Calasso, Ceronetti, Citati, Cioran… Cos’hanno in comune questi quattro autori? E in loro sente delle affinità o se ne distanzia?

Mi pare che Citati, Ceronetti, Calasso siano continuamente tentati da quel genere di estremismo che è la mistica. In loro si sente di continuo il richiamo più o meno esplicito ad una philosophia perennis che il particolare sviluppo della cultura occidentale ha dissipato e consegnato all’oblio. Intellettualmente non vogliono accettare l’Illuminismo. Ma come tutti gli occidentali che vivono secondo il modo occidentale di vivere, anche loro devono accettare, di fatto, l’Illuminismo: leggono i giornali, scrivono sui giornali, usano i prodotti dell’industria, vanno al cinema, abitano un mondo abbandonato dagli dèi in cui niente è sacro…

In effetti, anche come scrittori, sono qualcosa a metà strada fra il dandy e l’anacoreta. Purtroppo, senza ironia e senza molta consapevolezza del paradosso… Calasso è stato un editore geniale. Ceronetti è uno scrittore notevole. Citati potrebbe essere un ottimo critico, se non recitasse da veggente e se non pretendesse di parlare, in stato di atarassia, di troppi autori, riscrivendoli e parafrasandoli…

Che cosa rimprovera in particolare alla sinistra italiana?

La ragione per la quale non sopporto la sinistra italiana è che non riesco a farmi piacere la sua cultura, i suoi intellettuali di riferimento. Il mio guaio è che sono più sensibile ai fatti culturali che a quelli politici. La cultura di un paese non è forse più importante della sua politica? La politica viene dopo, è il prodotto di un modo di pensare e di essere. Molta cultura di sinistra degli anni Ottanta era berlusconiana ante litteram, ha preparato la strada al centro-destra. E non vuole riconoscerlo.

[pubblicato in: Il Caffè Illustrato, n. 34, gennaio-febbraio 2007.]



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