14 settembre 2009

«Seamus Heaney: una voce d'Irlanda di fine secolo» di Nicola D'Ugo e Piero Vaglioni


All'annuncio del conferimento del Nobel 1995 per la letteratura c'è stata in Italia tutta una rassegna di articoli imbarazzanti, particolarmente perché poco avevano a che vedere con l'opera del destinatario del premio e tantomeno con il senso dell'attribuzione. Il poeta e saggista irlandese Seamus Heaney non è né autore di poca fama nell'ambito della letteratura in lingua inglese, né il premio è in sé rivolto ad autori la cui opera sia di tale pregio universale da lasciare tutti contenti.

La reazione immediata nella provincia Italia fu quella dell'opposizione all'irlandese da parte di coloro che speravano che in quest'ultima premiazione il conferimento andasse all'italiano Mario Luzi (reduce dalle polemiche avanzate da Joseph Brodsky), ma ben presto si fece largo uno stuolo di 'conoscitori' di Heaney che accrebbe in dismisura una polemica di basso rango. Anzitutto perché né gli uni né gli altri seppero indicare i pregi e le motivazioni che sottostavano la scelta degli accademici di Svezia.

Riguardo al secondo punto, quello delle motivazioni, è ovvio che, nell'ambito della letteratura in lingua inglese, Seamus Heaney veniva scelto per ragioni non molto diverse da quelle che ispirarono, settant'anni prima, la premiazione di William Butler Yeats, e cioè ragioni d'ordine politico.

Ciò non vuol dire che l'indipendenza irlandese del 1921, perfezionata nel 1949, e il cessate il fuoco unilaterale e a tempo indeterminato dell'Ira (Irish Republican Army: l'Esercito Repubblicano Irlandese) del 31 agosto 1994 abbiano a offuscare in alcun modo il merito di questi due poeti. Sarebbe troppo lungo l'elenco degli scrittori meritevoli del riconoscimento che sono stati scavalcati da altri anche di poco pregio e di minore conseguenza (Proust, Musil, Brecht, Céline, Joyce, Pound, Borges, Ungaretti, Valéry, Pessoa, Rilke). Solo pensare che Maria Grazia Deledda sia fra i Nobel e fra questi non compaia Virginia Woolf la dice oltre misura.

12 settembre 2009

«'L'agguato immortale' di Maria Grazia Lenisa» di Nicola D'Ugo





 L'agguato immortale
 Maria Grazia Lenisa
 Bastogi
 Foggia 1995
 EUR 9,30
 160 pp.
 ISBN 88-86-45239-X





L'esser donna e al tempo stesso essere poeta, avere come modelli per la propria dizione una schiera innumerevole di uomini e una sparuta messe di scrittrici che nei secoli, nella spigolatura che i secoli ci consegnano, hanno cercato nel lessico, nelle tematiche e finanche nel ritmo maschile la propria lingua, di raccontare se stesse e i propri moti più intimi, le proprie vicissitudini, le proprie indicibili fantasie, non è affatto facile, e il risultato lo dimostra. Le voci femminili più note della poesia italiana sono relegate a genere, hanno un territorio segnato in cui muoversi e dire e, spesso, trattando uno dei più alti temi della letteratura (che è il più importante tema della vita), l'amore, si sono dovute accontentare delle metafore che il linguaggio letterario maschile gli forniva o cantare lieve lieve con flebile voce circostanze minime, quasi diaristiche.

Non dovunque si è avuto questo fenomeno, non negli Stati Uniti, la cui autocoscienza femminile ha espresso poetesse celeberrime come Sylvia Plath e Anne Sexton, le due confessionaliste di Alvarez, l'una bardico funambolo di "Fever 103°" o del «great strip-tease» da ribalta di "Lady Lazarus" nel postumo Ariel (pubblicato dalla Faber and Faber nel 1965), l'altra straordinaria voce emancipata che presta la metafora alle verità più intime delle proprie pulsioni quotidiane (All My Pretty Ones, Boston 1962; Love Poems, Houghton Mifflin, Boston 1969). È un peccato che si debbano attribuire etichette quali poesia senza bardo in riferimento alla Cavalli, che peraltro ha spunti e motivi pregevolmente esibiti, o cercare nelle poetesse tragicamente finite come Antonia Pozzi una rilettura garzantiana postuma e suscettibile di sospetti. La voce stessa di Amelia Rosselli, riconoscibilissima, non faceva che rimanere dentro uno spazio tematico neutro, uno spazio in cui poteva muoversi la voce maschile e femminile allo stesso modo, che non scavava e creava un linguaggio femminile alto, non si denudava in quanto voce femminile.

«'Cortesie per gli ospiti' di Ian McEwan» di Nicola D'Ugo





 Cortesie per gli ospiti
 Ian McEwan
 Einaudi
 Torino 1997
 Traduzione di Stefania Bertola
 EUR 8,64
 140 pp.
 ISBN: 88-06-14386-7 




Dal 1983 a oggi la casa editrice torinese Einaudi avrebbe avuto modo di riprendere questo romanzo di Ian McEwan (nato nel 1948) e ritoccarne la traduzione. Invece la ripropone con tutti i difetti d'allora, rendendolo ora noioso e datato. Infatti, se nel caso dell'originale inglese, The Comfort of Strangers (1981), l'autore supplisce alle carenze di quell'approfondimento tematico che ha fatto dell'evoluzione del pensiero femminista uno dei capisaldi della cultura e del dibattito del secondo Novecento, lo si deve alla sua capacità di offrire uno stile sicuro, che sa cogliere la grande lezione dell'asciutto realismo di Ernest Hemingway e ricondurla oltre le cronologie del maestro.

Antecedente alle improbabili e provocatorie ipotesi di Will Self, ma posteriore di decenni alle riflessioni virali di William Burroughs, McEwan tenta in questo breve romanzo –che ha per protagonista una coppia di turisti inglesi in vacanza all'estero (Colin e Mary) avvicinati da uno sconosciuto del luogo (Robert)– di porre in relazione le nuove istanze del rapporto amoroso con i movimenti sadomasochistici della fine degli anni settanta: quella sorta di carnaio che in arte si ritrova nella figura parallela di Hermann Nitsch. In questo senso, il romanzo conserva l'aura tematica del proprio tempo.

La storia è condotta senza scossoni e colpi di scena eclatanti: aleggiano vagamente solo strani indizi, neppure troppo inquietanti, tutti stretti in pochi particolari. La minuzia descrittiva quasi ipermetonimica ha il pregio di indirizzare l'attenzione del lettore innanzitutto sull'aspetto visivo e già quasi cinematografico, muovendosi come una macchina da presa o uno sguardo reale fra un personaggio e l'altro. È qui che meglio si notano nell'originale le doti espressive di McEwan.

«Nuova poesia italica in Marcoaldi» di Nicola D'Ugo


In Celibi al limbo (Einaudi, Torino 1995), Franco Marcoaldi ci offre una poesia autoironica, talvolta amara, schivando con l’arguzia buffonesca ogni pretesa di lirismo serioso, di letteratura alta, di sperimentalismo estroso, come vorrebbe invece la più nota poesia del secondo Novecento. Ciò che mi ha colpito di questo autore è il gioco simpatico e imperfetto delle rime, come fiori o stelle che sboccino nella testa lungo il fiume della sensazione. Una sensazione che sa tenersi, o meglio perdersi e ritornare, in un contesto riconoscibile, in un’Italia fatta di amici, illusioni, canzonature, attese e delusioni.

La poesia, con Marcoaldi, sembra ritornare a questo contesto contemporaneo, di cui ci avevano già raccontato altri linguaggi, anzitutto quello cinematografico di Moretti e quello fumettistico di Pazienza. L’Italia di Marcoaldi non è un orto montaliano, in cui l’esistenza si consuma e la vita si brucia, e non è neppure quell’Italia posteriore segnalata da Pagliarani ne La Ragazza Carla, in cui depressione e immigrazione rappresentano il contesto sociale entro cui matura, nel dolore, il boom economico degli anni sessanta. Qui ciò che si consuma sono i momenti, ciò che brucia è il desiderio, in rapida consunzione. La vita non è disillusa, ma si illude e disillude, per illudersi ancora. Il mito non è né la Rivoluzione, né la Lotta Sociale, ma, come scrive Marcoaldi, «regina Fica»:

«'V. e altre poesie' di Tony Harrison» di Nicola D'Ugo


[Harrison, Tony, "V" e altre poesie, Einaudi, Torino 1996, XXII-194 pp.]

Tony Harrison, nato a Leeds nel 1937, è uno dei più noti poeti inglesi. Per lui fare poesia è prender atto della globalizzazione degli interessi extranazionali da un lato e, dall'altro, assumere, attraverso l'espressione poetica, la propria posizione. Il suo linguaggio, a partire dal lessico, è quello del parlante comune, le sue riflessioni sono rivolte al lettore comune.

La sua non è poesia di ricerca espressiva, non più di quanto il sacrificio personale di qualunque scrittore richieda: è piuttosto un mezzo che permetta di riflettere con più intensità di quanto l'usa-e-getta della cronaca e dei proclami televisivi possano fare, ondeggianti gli uni sugli altri, persi in un mare di significazioni frammentarie, contraddittorie, superficiali.

A questo, egli oppone la sua estetica, trovando congeniali pubblicazioni sui quotidiani inglesi, come ad esempio, quelle sul Guardian del 5 e 18 marzo 1991, entrambe dedicate alla Guerra del Golfo: "Initial Illumination" e "A Cold Coming".

«'Poesie scelte' di Seamus Heaney» di Nicola D'Ugo


Poesie scelte di Seamus Heaney non si propone, già programmaticamente, quale antologia dell'opera del poeta nordirlandese. Punta invece, e fa bene, alla diversità interpretativa dei quattro traduttori (Roberto Sanesi, Gilberto Sacerdoti, Nadia Fusini e Francesca Romana Paci), raccogliendo in altrettante sezioni il loro contributo, come se ognuno di essi avesse avuto fra le mani il proprio Heaney e, dalle singole raccolte originarie, avesse scelto di proporre ciò che gli pareva più rappresentativo, cercando di evitare i "doppioni". Così facendo, il volume è un omaggio a Heaney e ai suoi traduttori e perde un po' di quell'aspetto archeologico e annoso proprio dei ritardi d'importazione degli autori stranieri, e per lo più con grossolane incette che non si sa mai da dove prendano piede.

Va subito detto che il lavoro cui si sono trovati di fronte questi interpreti è stato assai arduo e i tempi ristretti: non ci viene presentato, infatti, né il capolavoro North (del 1975, di cui si può qui leggere l'omonimo componimento), né si è attesa l'uscita del recentissimo The Spirit Level (Faber & Faber, London-Boston 1996). L'editore Marcos y Marcos, con questa silloge, ha puntato sul sicuro, proponendo innanzitutto il Premio Nobel del 1995, con le ovvie implicazioni che un tale premio garantisce. Il rischio cui sono andati incontro i traduttori è stato scongiurato per tre quarti, con buoni esiti da parte di Fusini, che ha interpretato mirabilmente e con amore la difficilissima "Punishment" (Punizione).

9 settembre 2009

«Gli aspiranti eroi dell'Irlanda. Eroismo e misoginia in Queneau» di Nicola D'Ugo





 Troppo buoni con le donne
 Raymond Queneau
 Einaudi
 Torino 1998
 Traduzione di Giuseppe Guglielmi
 EUR 7,50
 160 pp.
 ISBN: 88-06-14914-8





"–  Bzzz, fa la bomba."

La citazione che fa da epigrafe a questo articolo non è una battuta presa da un libro o da un buontempone in vena onomatopeica, ma è l’intero Capitolo LXII di un altro "eroico" romanzo di Raymond Queneau: Troppo buoni con le donne (On est toujours trop bon avec les femmes), pubblicato a Parigi nel 1971. Il disastro causato da una cannonata diretta ai protagonisti vien così anticipato con il semplice sibilo della bomba che viaggia dal cannone di una nave inglese verso un ufficio postale irlandese: da qui a lì, fra il desiderio di colpire bene il bersaglio e il timore d’essere colpiti. A mezz’aria, il semplice sibilo è addirittura impersonale: un oggetto-bomba che fa il volo cui lo hanno destinato, ormai irreversibile da chi lo ha lanciato e inevitabile per chi lo riceva.

Il capitolo risulta però molto comico: quello che lo precede ci aveva introdotto dei personaggi che alla propria pelle ci tengono assai. L’informalità e addirittura la mancanza di passione che ci mette lo scrittore nel dirci che, dopo tante bombe cadute a vuoto, ne è partita una che già sappiamo che ha il tiro aggiustato, rappresenta la completa indifferenza che il narratore ha per la sorte dei suoi protagonisti, di quei personaggi che egli stesso ha inventato (e quindi saranno in qualche modo importanti), e accende in noi la curiosità di sapere quello che gli capiterà.

Raymond Queneau, il fine pensatore, vive anzitutto nel suo linguaggio, fatto di una poesia e materialità espositiva che saltano dal comico al sentimentale, dallo sboccato all’aulico, dall’intraprendente al nostalgico, secondo dei movimenti dell’animo alterabili quanto lo sono quelli degli uomini tutti e, in particolare, dei suoi personaggi.

«Arthur Schnitzler e l'insostenibile insicurezza dell'immaginazione. 'Doppio sogno'» di Nicola D'Ugo


Arthur Schnitzler,
Doppio sogno,
Adelphi, Milano 1998.
A cura di di Giuseppe Farese.
131 pp. EUR 8,00

«Non si può ipotecare il futuro.»
Arthur Schnitzler, Doppio sogno

Traumnovelle di Arthur Schnitzler, ovvero Doppio sogno, è un romanzo in bilico fra il sogno e la realtà, nell’avventura immaginativa del protagonista, il medico trentacinquenne Fridolin, sospinto verso situazioni nuove, e sempre insondate fino in fondo, da un impellente desiderio di riscattarsi.

A partire dalle «due maschere in domino rosso» incontrate la sera prima a una festa, il protagonista recupera nella memoria la «ragazza giovanissima» della spiaggia in Danimarca, già annunciando il carattere più simbolico che reale che lo porterà a una rassegna di incontri amorosi con la figlia di un paziente, Marianne, «seduta ai piedi del letto» del padre appena deceduto, con la «passeggiatrice» Mizzi, con la «pazza» Pierrette, con la donna mascherata che si sarebbe «sacrificata» per lui in una segreta villa libertina. Sono per lo più, lo si noti, figure giovani. La bagnante pare al protagonista «giovanissima, forse quindicenne.» Mizzi è «una creatura graziosa, ancora molto giovane, pallidissima, le labbra tinte di rossetto» e ha «diciassette» anni. Pierrette è una «ragazza graziosa e giovanissima, quasi una bambina.» Marianne «tre o quattro anni fa, aveva ventitré anni», mentre la donna mascherata resta anonimamente senza volto e senza età: «ombra fra le ombre» simile «a una diciottenne come a una trentottenne.»

«'Foglie d'erba 1855' di Walt Whitman» di Nicola D'Ugo





 Foglie d'erba 1855
 Walt Whitman
 Marsilio
 Venezia 1996
 A cura di Mario Corona
 Testo originale a fronte
 EUR 20,66
 432 pp.
 ISBN 88-31-75895-0



Uomo ottocentesco, ma padre del modernismo del Novecento, autodidatta e fondatore della nuova poesia americana, amante dell'Opera italiana e fautore di un'arte al di sopra della tradizione, artista che fa della natura il suo punto di riferimento, dell'uomo comune il suo oggetto d'ammirazione e il suo interlocutore, delle movenze prosastiche del verso la sede della sensualità espressiva, del concetto il luogo generale a cui si riconduce la multiforme materia, Walt Whitman (1819-1892) si ritrova tutto in una sola opera Leaves of Grass (Foglie d'erba), incessantemente riveduta, fino all'edizione definitiva del 1891-92, che ne costituisce il documento testamentario. Questa, pubblicata ora da Marsilio, è invece la prima edizione del 1855, allora definita da Emerson «miracolo».

L'opera è di per sé magistrale, anticipata da una sorta di prefazione in prosa, che Whitman non volle più porre nell'edizione del 1891-92. La celebrazione dell'uomo e del poeta, il primato dell'uomo comune americano sul suo rappresentante politico, l'ottimismo riposto nelle possibilità individuali e collettive, il senso di fratellanza coi deboli, il dispregio delle ricchezze, l'ammonimento agli Stati affinché non tradiscano le aspettative della «nuova nazione» e «razza di razze», possono lasciare oggi stupiti rispetto a certi esiti delle vicende politiche americane, se è vero che a Foglie d'erba ci si riferisce come alla Bibbia Americana.