31 dicembre 2009

«'Benito Cereno' di Herman Melville» di Nicola D'Ugo





 Benito Cereno
 Herman Melville
 Einaudi
 Torino 1997
 A cura di Guido Carboni
 Traduzione di Cesare Pavese
 Testo originale a fronte
 EUR 9,30
 XXXII-220 pp.
 ISBN: 88-06-14022-1


Sull'onda dei grandi romanzi d'avventura e di mare, la visita del capitano della Gioia dello Scapolo, l'americano Amasa Delano, alla nave spagnola San Dominique diventa un'avventura tutta racchiusa dentro i legni che ospitano strani personaggi, i cui comportamenti mettono in guardia e rappacificano di volta in volta l'animo del protagonista. Alla grande avventura a mare aperto si sostituisce qui, sorprendentemente, l'avventura di una semplice visita di cortesia e di aiuto che Delano porge a don Benito Cereno, giovane comandante di un'imbarcazione sudamericana in difficoltà, carica di schiavi africani e priva di gran parte del proprio equipaggio, nell'«anno 1799», quantomai ricco di evocazioni simboliche.

La penna di Melville ci trascina, con fortunatissime similitudini tratte da altre letture e avventure, in un lungo viaggio d'interpretazione dei segni esteriori, di contraddizioni successive, di timori orrendi e di sollievi fanciulleschi, secondo le interpretazioni della logica abduttiva di capitan Delano. Melville ci introduce, in questo romanzo del 1855, nei pensieri e nelle congetture di un uomo, nelle etichette marinaresche deluse, nel giudizio morale dei personaggi che il protagonista ha la disavventura di incontrare e, in definitiva, negli scenari articolati della nave anomala che lo stato d'animo di Delano tende ad accentuare nei suoi aspetti inquietanti. La lucidità di Melville sta nel segnalarci le difficoltà dell'interpretazione dei segni della vita reale che accompagna la mutevolezza dei nostri sentimenti, le ubbie suscitate da un nonnulla, la somiglianza sottilmente imperfetta fra verità e falsificazione.

«'North' di Seamus Heaney in italiano» di Nicola D'Ugo





 North
 Seamus Heaney
 Mondadori
 Milano 1998
 A cura di Roberto Mussapi
 Testo originale a fronte
 EUR 14,00
 140 pp.
 ISBN: 88-04-42270-9



Che cosa hanno in comune gli irlandesi con i Vichinghi? Come può il filo spezzato della storia rivelarsi solo assottigliato a perdita d'occhio? Perché l'archeologia può farsi motivo antropologico di riconoscimento sentimentale? Ce lo spiega il Premio Nobel Seamus Heaney in North, una raccolta poetica del 1975 che esce solo ora per i tipi Mondadori.

Rifacendosi a The Bog People (Il popolo delle torbiere) dell'archeologo danese P. V. Glob, Heaney instaura un colloquio con una serie di personaggi dell'età del ferro, focalizzando l'attenzione su ciò che resta dei loro corpi straordinariamente preservati nelle torbiere. La pietà è rivolta a personaggi malridotti, di cui ci restano però alcuni stupefacenti tratti del volto. Sono anzitutto dei condannati a morte, per cui l'enunciazione di Heaney si fa pietà sentita e motivata per l'uomo, quale sentimento di fratellanza e d'amore. Ma si fa anche giudizio su se stesso e sulla cecità etnica, culturale, evidenziando l'aspetto di chiusura di un mondo entro i confini di una cultura e d'una costumanza. Probabilmente – ci dice Heaney – se avessi partecipato all'esecuzione capitale di uno di quei personaggi dell'età del ferro, avrei fatto come tutti, ossia mi sarei astenuto dal salvarlo!

«Tra modernismo e postmodernismo. Riflessioni sulla lirica di Dylan Thomas» di Nicola D'Ugo



Questo breve saggio sulla lirica di Dylan Thomas va considerato quale cominciamento di una serie di ricerche e interventi sulla poesia contemporanea. Non siamo proclivi a indulgere ai dettami e alle forme tassonomiche e normative che intendano porre il veto sulla rivisitazione di un autore, pacifico l’assunto che ciò che è stato esaminato e condiviso da più parti passi di seguito in cassazione. V’è il dubbio retorico che spesso tutto se ne vada in prescrizione senza che l’editoria si impegni a salvaguardare (il termine ha connotazioni fortemente protezionistiche) l’opera di autori che, tolta agli scaffali di libreria dall’ultimo allungo di un braccio fortunato (o fortunoso) va a trascorrere il tempo suo nell’Ade del dimenticatoio. Nel caso di Dylan Thomas (Swansea, UK 1914 - New York, USA 1953) va appuntata la generosità dell’editoria nostrana (Einaudi, Garzanti, Guanda, Marcos y Marcos, M’Arta, Mondadori, Il Saggiatore), la quale s’è prodigata nel proporre un po’ tutte le sue opere, anche se l’opera omnia non è contemplata dai cataloghi. Del resto fu d’aiuto il successo ch’egli riscosse nell’Italia del secondo dopoguerra. Diventa addirittura paradigmatico il nome di Thomas in riferimento al Montale critico e al giudizio critico vagliato. Il nome suo è poi l’epiteto generazionale del funambolismo di cui ci indicò brillantemente Giorgio Melchiori nello splendido The Tightrope Writers. Studies of Mannerism in Modern English Literature (1956), dipoi tradotto da Ruggero Bianchi per l’Einaudi con il titolo I funamboli (Torino 1963 e 1974). E l’elenco, aggiunto il nome di Roberto Sanesi (si veda tra l’altro, più per l’intento di ripercorrere l’iter della poesia di Thomas che per l’effettiva riuscita del disegno, il suo Dylan Thomas, nell’edizione garzantiana del marzo 1977), andrebbe avanti all’infinito; e verrebbe posto in pregiudizio l’intento nostro che è quello di tenere al riparo, nei debiti limiti né oziosamente, da vecchie etichette (quale quella di modernismo, già di per sé tutta da rivedere) un autore che vorremmo riesaminare –sommariamente per quanto ci è dato scorgere nel suo lavoro, e senza che qualche menestrello si intrometta a cantarcela alla vecchia maniera– alla luce dei tempi nostri, in un tentativo di riapertura del caso Thomas.

26 dicembre 2009

«Incontro con Vincenzo Cerami» di Nicola D'Ugo



Martedì 13 aprile, alle ore 13,00, si è svolto un incontro con Vincen­zo Cerami nell’Aula I della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’università «Tor Vergata». Alla presenza di circa 150 persone fra studenti e docenti, in un contesto sobrio e familiare, Cerami ha esposto alcuni motivi della scrittura creativa, a partire dai momenti che anticipano la comunicazione, come il trasdurre «in parole segni particolari determinati dalla memoria, sensazio­ni ecc.». Quando si vuole raccontare occorre portare i segni rapidi del pen­siero in un nuovo codice, con «parole più acconce», come «un ordinatore, un computer», attraverso un «processo di pensiero in ralenti». In questo senso, bisogna «mentire per dire la verità», giacché il nostro pensiero non è fatto di frasi e parole ordinate secon­do la lingua, ma di quei segni personali che ognuno di noi va costruendo nella propria mente, depositati, rielaborati e attinti dalla memoria. La lingua, da questo punto di vista, non è che una «prigione», nella quale lo scrittore (ma anche chi non lo è) si trova inevi­tabilmente costretto.

Tornando indietro negli anni, Cerami ha raccontato di quando, dopo un anno di cecità dovuta alla difterite, si trovò quale insegnante di lettere delle medie un professore «sdrucito» come lui e i suoi compagni, che li faceva giocare a pallone, molto scherzoso e sorriden­te: Pier Paolo Pasolini. A Ciampino, in quella scuola media di via Pignatelli, l’autore di Un borghese piccolo picco­lo e Fattacci, e coautore con Roberto Benigni di sceneggiature come Il pic­colo diavolo e La vita è bella, fece il suo primo incontro con la poesia. L’insegnante, senza dubbio eccezionale, se da un lato era familiare ai bambini nel contesto scolastico, dall’altro evo­cava nella loro mente una grandezza del tutto particolare, dato che poteva­no ascoltarlo leggere poesia non solo in classe, ma alla radio. Durante que­sto periodo Cerami comprese che il desiderio di mettersi in mostra fra i suoi coetanei e agli occhi del giovane professore poteva trovare soddisfa­zione nella scrittura, che gli permette­va di uscire da una sorta di isolamento interiore di cui sono spesso preda i bambini. Dovendo affrontare temi sco­lastici quali «L’indigestione» e «Le vacanze», il bambino, che mangiava quel poco che riusciva a trovare in tavola e che le vacanze le aveva vissute sì e no una sola volta con una gamba rotta guardando le montagne da un ve­tro d’ospedale, doveva per forza di cose ricorrere all’immaginazione, qua­si arrampicandosi sugli specchi. Capi­va che le sue storie non erano credibi­li, e che il professore lo avrebbe subito smascherato. Si mise allora all’opera, cercando di renderle più verosimili possibile. Questo si tradusse in una operazione che lo avrebbe accompa­gnato per tutta la vita di scrittore: l’in­veramento.

16 dicembre 2009

«'Poesie d'amore' e 'L'estrosa abbondanza' di Anne Sexton» di Nicola D'Ugo





 Poesie d'amore
 Anne Sexton 
 Le Lettere
 Firenze 1996
 A cura di Rosaria Lo Russo
 Testo originale a fronte
 EUR 14,00 
 208 pp.
 ISBN: 88-71-66291-1
 






 L'estrosa abbondanza 
 Anne Sexton
 Crocetti
 Milano 1997 
 A cura di Rosaria Lo Russo, Antonello Satta Centanin ed Edoardo Zuccato.
 EUR 14,98
 186 pp.





Poche poete del Novecento possono dire di aver svolto appieno il proprio compito all'interno della grande emancipazione femminile. Certo Adrienne Rich, certo Margaret Atwood, molto meno da noi Neri, Rosselli e Cavalli. Ma Anne Sexton supera di gran lunga le altre poete angloamericane, poiché ha saputo unire senza pari l'eloquenza alla propria non facile vita. Se, come molti sostengono, il poeta è un uomo o una donna a nudo, Anne Sexton, nella sua spregiudicatezza, lo è stata doppiamente, attraverso la messa a nudo della propria esteriorità e del proprio mondo interiore, del proprio sesso e del proprio desiderio.

La madre, la strega sono gli emblemi, fra i tanti, che accrescono di valore temporale il suo linguaggio, conferendogli stratificazioni semantiche innegabili: sono dei miti raccolti e rivisitati in forma nuova, quale critica ai simboli stessi dell'universo storico maschile. La celebre «Ballata della masturbatrice solitaria», proposta nei due volumi con diversa traduzione, offre una lettura del rapporto d'antagonismo erotico nelle forme e nei valori dell'America degli anni Sessanta, del boom economico e della liberazione dei costumi sessuali, con vagheggianti accenti d'antecedente eleganza. L'organo sessuale femminile («Mia piccola susina») si fa, in Sexton, di una esteriorità intimizzata, un emblema dell'anima restituito dall'amante traditore alla mittente, mentre il refrain, il ritornello finale dell'antica forma della ballata («Io da sola ogni notte sposo il letto»), diviene, nelle mani della poeta, strumento di una melanconia appassionata e immediata, con un lessico diretto e colloquiale, o, come si disse, confessionale.

«'Moskovskij Chor' (Il coro di Mosca) di Ljudmila Petruševskaja» di Nicola D'Ugo





Da sinistra, Ljudmila Motornaja e Elena Kalinina in una scena del dramma.






Lo scorso 18 dicembre è andato in scena, nella bella cornice della Sala Petrassi dell’Auditorium di Roma, Moskovskij chor (Il coro di Mosca, 1988) di Ljudmila Petruševskaja, in lingua russa e con sopratitoli in italiano. Il titolo della pièce aiuta a comprendere l’elemento di ambivalenza drammatica ed epica che fa da ordito espositivo della vicenda: la casa che costituisce la scena del dramma, con le sue diverse dislocazioni delle stanze, una dentro l’altra o sopra l’altra, forma una sorta di coro, per cui, di tanto in tanto, gli attori interrompono l’azione per passare al ruolo di cantori, con motivi che, per la maestosità melodica che si succede all’affastellato battibecco, ironizzano amaramente sulle misere vite dei protagonisti.

Il dramma è ambientato negli anni 1956-57 a Mosca, durante la destalinizzazione imposta da Nikita Chruščëv (del 1956 è il suo “discorso segreto” sui crimini di Stalin), che portò alla riabilitazione di numerosi cittadini sovietici sommariamente colpiti, a partire dal 1937, da condanne a morte e deportazioni. Ciò non significò la fine delle persecuzioni politiche, che, in modo meno efferato, continuarono ad attuarsi nell’Unione Sovietica, nonostante la promozione, da parte del Segretario del Pcus, del romanzo di Aleksandr Solženicyn Una giornata di Ivan Denisovič, che nel 1962 avrebbe denunciato, con grande ironia sposata a una gelida crudezza, la vita inumana e socialmente inutile all’interno dei gulagy.

Nel dramma di Petruševskaja tutta la vicenda storica, di ampiezza internazionale oltre che nazionale, si riduce a una casa affollata, come se il clamore dell’evento debba trovare un eco congeniale nel microcosmo domestico di una famiglia divisa fra persecuzioni e povertà. La casa stessa, fortunato espediente scenografico, è un agglomerato di vani e suppellettili, che forma, più che un coro, una sorta di juke-box, in cui la meccanica del movimento degli inquilini è adagiata sotto l'occhio onnicomprensivo dello spettatore. In questa casa, si celebra il paradosso del dissidio famigliare prodotto dalla riabilitazione degli esuli, poiché il ritorno dei parenti non si coniuga con una adeguata ricettività alloggiativa e lavorativa. La casa diventa, allora, attraverso l’espediente del ritorno, il luogo cui la vastità della Russia si rivolge all’individuo, comprimendolo nella struttura sociale che lo ospita.

17 novembre 2009

«Oltre la musica: Il poeta Fabrizio De André» di Nicola D'Ugo




«Benedetto Croce diceva che fino all'età dei diciotto anni tutti scrivono poesie, dai diciotto anni in poi rimangono a scriverle due categorie di persone: i poeti e i cretini. Quindi io precauzionalmente preferirei considerarmi un cantautore. Per quanto riguarda l'ipotesi di differenza fra canzone e poesia, io non ho mai pensato che esistessero arti maggiori o arti minori, casomai di (sic) artisti maggiori e artisti minori. Quindi se si deve parlare di differenza fra poesia e canzone credo che la si dovrebbe ricercare soprattutto in dati tecnici,» diceva De André in una recente intervista televisiva.

Ogni qualvolta un testo non sia presentato nella sua forma autonomamente scritta, ma, come per la sceneggiatura cinematografica e per il dramma teatrale, esso sia già inglobato all'interno di forme espressive e mediatiche diverse, ci si può porre il quesito della letterarietà. La domanda cui si è chiamati a rispondere è se, dato un codice semiotico, ciò che sia riconducibile a quel codice possa gareggiare con gli altri competitori. Nel caso specifico, si vuole rispondere alla domanda secondo la quale un testo, estrapolato dalla musica, sia di una valenza letteraria tale da emergere in un insieme prestigioso di testi. Anzitutto bisognerà chiarire che il dato statistico non è un ottimo metodo di valutazione. Esso dà per buono che il meglio sia ottimo, salvo poi screditarsi in una comparazione più estesa (per es.: dal 1500 al 1900, anziché dal 1600 al 1702). Questo metodo del meglio o meno peggio appare poco adeguato a esprimere un giudizio che entri nella meccanica del componimento, nella sua capacità di accendere scenari, suggestionare, far sentire sulla pelle tutto un ambiente immaginario.

15 novembre 2009

«Riprendere la differenza: 'Doppio sogno' di Schnitzler e 'Eyes Wide Shut' di Kubrick» di Nicola D'Ugo





Nelle foto, da sinistra, lo scrittore viennese Arthur Schnitzler e il regista newyorkese Stanley Kubrick.



La rivisitazione dei miti è un esercizio tipico dei grandi artisti d’ogni tempo, sia perché per affettività e modo di guardare l’universo mondo essi ne son stati la spiante toppa e la chiave, sia perché il mito non calza piú con le necessità loro. La rivisitazione, oltre che un tributo, s’offre come un tradimento di grande fedeltà che rende col tramando linfa novella alla tradizione. Un tale omaggio è tipico del cinema, che abbisogna di soggetti che la letteratura non ha smesso di apportare. Eyes Wide Shut (1999) non è nato dalla penuria di soggetti, né da una conversione allo psicologismo schnitzleriano, che in Kubrick v’è sempre stato.

La psicologia dello scrittore viennese tratteggia con minuto rigore lo Shining (1980), benché l’omonimo romanzo di Stephen King ne sia il soggetto: qui si trattava di tessere l’azione a partire dall’immaginario dei suoi caratteri, per render giustizia all’importanza che il vissuto riveste nelle umane cose. Ne era metafora la ‘guerra’, tema caro al regista newyorkese, in seno a una famiglia con pochi contatti o punto col mondo esterno. V’era poi un gioco con gli spettatori, nel fargli credere che Jack Torrance fosse la fonte d’ogni male, irretendoli nei loro luoghi comuni. L’horror, poi, veniva nobilitato all’estrema potenza da un rigore formale che metteva a tema la società americana, il razzismo e il ruolo del lavoro nella modernità.

27 ottobre 2009

«Dickinson, una donna vissuta a metà dell'Ottocento» di Nicola D'Ugo


La letteratura ha una tendenza all’accordo: mobilitandosi dalle urgenze dell’individuo, va a ricercare un linguaggio comune. Spesso si tratta di un’urgenza dell'autore, di un suo umore individuale, che viene convogliato in un’azione (lo scrivere), l’esercizio della quale evoca nell'autore stesso, attraverso ciò che comunemente chiamiamo formazione e sensibilità, un’espressione fatta di scenari linguistici, di modi di dire, di luoghi interiori che subito vengono acciuffati dall’autore nella propria mente.

Questi acciuffamenti interiori possono essere in qualche modo rispettosi di un discorso comune, tesi a una dizione che si integri con uno scenario regolato da altri e con gli altri, che tenga conto della propria collocazione ambientale, della tendenza della letteratura contemporanea, assumendo una forma efficace per accedere a pieno titolo in quello che viene chiamato «agone letterario», ossia il luogo di confronto e di scontro delle scritture di una determinata epoca.

La scrittura di Emily Dickinson, una donna vissuta a metà dell’Ottocento, è particolarmente affascinante per due motivi: innanzitutto perché la sua opera appare meno inquinata dalle mode letterarie, dall'agone che caratterizza in genere le preoccupazioni dei poeti; poi per la stretta tangenza del suono e dell’idea, dell’immagine e della sua espressione in parole, al punto che, nei suoi riguardi, si è parlato di charm e riddle (incantesimo e indovinello) a un tale grado che torna inadeguato qualsiasi tentativo di traduzione.

«'Poesie e racconti' di Dylan Thomas» di Nicola D'Ugo





 Poesie e racconti
 Dylan Thomas 
 Einaudi
 Torino 1996
 A cura di Ariodante Marianni
 EUR 36,15
 XLIV-844 pp.
 ISBN: 88-06-14257-5




Goffi, esilaranti, lamentosi, sensuali, ma specialmente traboccanti dalla pagina e come usciti dai quadri di Brueghel con quel senso critico della comunità locale, i personaggi dei racconti di Thomas si aggirano con le sembianze delle cose che circondano il protagonista delle vicende. Fa da sfondo il mondo cittadino e campagnolo del Galles, con le sue pecore, le sue volpi, le felci, i cappellini e la trementina, nell'abbraccio paonazzo di un'umanità corale che la penna di Thomas fissa fedelmente come nessun altro.

In questo la nota comune dei racconti con la poesia bardica, struggente e biblica (più profetica nel tono che non, come invece è stato detto, apocalittica) della prima parte del ricchissimo volume Poesie e racconti, che contiene, come evidenzia il curatore, «di gran lunga la più vasta raccolta di poesie thomasiane mai tradotta» in una lingua altra dall'originale inglese; ma, anche, l'amore che suscita il tributo dei gallesi di oggi per il loro poeta nazionale e –come amano dire– del mondo.

L'occhio caleidoscopico del bambino protagonista delle vicende ci rivela la follia delle scelte e dei comportamenti umani, si dimostra impietoso per difetto di quei filtri che la società, non la natura, detiene. Tacito, il bambino sa che in fondo, nel mondo degli adulti, egli non ha diritto di parola, che il pensiero esternato nella parola gli procurerà solo guai, che gli adulti vogliono determinare e decidere i suoi comportamenti.

«Il primo e l'ultimo Heidegger» di Luciano Albanese


Martin Heidegger nasce nel 1889 a Messkirch, nel Baden. Compie gli studi universitari a Friburgo, dove diventa libero docente e poi assistente di Husserl (1916). Nel 1923 è nominato professore a Marburgo. Nel 1927, dopo la pubblicazione di Essere e tempo, è richiamato a Friburgo per succedere a Husserl. Nel 1933 è nominato rettore della stessa Università. Aderisce al nazionalsocialismo e pronuncia la celebre prolusione rettorale sull’Autoaffermazione dell’università tedesca. Tuttavia l’anno successivo si dimette, continuando in silenzio e senza pubblicare nulla l’attività accademica. Tale vicenda dai lati ancora oscuri ha dato origine alla questione dei rapporti fra Heidegger e il nazismo, oggetto di interpretazioni molto divergenti fra di loro, ed ha procurato a Heidegger non pochi fastidi. Dopo la fine della guerra, infatti, gli Alleati gli impedirono di continuare l’insegnamento, e Heidegger si dedicò alla pubblicazione delle opere inedite successive ad Essere e tempo, opere che manifestano quella che viene definita comunemente una «svolta» rispetto all’opera del 1927. Nel 1951 gli viene concesso di riprendere l’attività accademica, che dura fino al 1958. Muore nel 1976 a Messkirch.

Il clima filosofico nel quale si colloca la produzione di Heidegger è caratterizzato, in linea generale, da quello che viene chiamato il «ritorno a Kant», successivo alla decadenza dell’hegelismo. Tale ritorno si era manifestato soprattutto nella teoria della conoscenza, con la Scuola di Marburgo (Cohen, Natorp, Cassirer), e nella filosofia della storia, soprattutto con Dilthey (1833-1911) e poi con autori come Rickert (1863-1936), Meinecke e Weber. All’interno del «ritorno a Kant» bisogna anche tener conto, tuttavia, di un sottoinsieme che compie un ulteriore passo indietro, operando una sorta di «ritorno a Hume». Si tratta di autori come Lipps e Meinong, che, insieme alla psicologia di Bolzano, avranno un ruolo non secondario nello sviluppo del pensiero di Husserl.

«'Mosca felice' di Andrej Platonov» di Nicola D'Ugo




Mosca Felice
Andrej Platonov
Adelphi
Milano 1996
Trad. di Serena Vitale e Ornella Discacciati
EUR 14,00
159 pp.
Isbn: 88-459-12426






Poetico e ricco di metafore ardimentose, tenero nel descrivere i moti del cuore e crudo nel registrare quelli dei sensi, Mosca felice (Sčastlìvaja Moskvà) di Andrej Platonov colpisce anzitutto per la svelta fluidità del linguaggio, l’agile snocciolarsi delle scene e una certa distaccata familiarità con cui ci trascina nelle dimore trasandate e nei campi ventilati a perdita d’occhio in cui si muovono i personaggi, con le loro intime riflessioni su quel mito culturale che fu l’uomo nuovo (novyj čelovék) nella Russia staliniana degli anni trenta. Scritto in quegli anni e pubblicato postumo dopo decenni di censura nel 1991, questo romanzo incompiuto ha il pregio di raccontare una gioventù diversa da quelle cui ci ha abituati la letteratura occidentale, da Woolf a Queneau, da Döblin a García Márquez, da Moravia a Oates, una gioventù che non è nata nel mito capitalista o nella sua opposizione, ma è cresciuta totalmente nella società sovietica, imbevuta dei sui miti, che si trova a confrontarli con le necessità della maturazione individuale.

Mosca Čestnova, una diciottenne cresciuta in orfanotrofio, è la congeniale protagonista della vicenda. Il primo ricordo infantile, che l’accompagnerà nella vita, risale alla rivoluzione d’Ottobre: un bolscevico inseguito e ucciso, quando lei aveva quattro anni. Tale ricordo, in una donna la cui situazione familiare qualifica come sradicata dal passato storico, senza alcun legame con i parenti, si dimostrerà, nel corso della vicenda, anch’esso un’illusione, un’interpretazione fantastica della bambina.

Lo scarto fra immaginazione e realtà è espresso da Platonov attraverso frasi lunghe e morbide, che, come piani differenziati, la sua abile penna inclina sapientemente, per far scivolare il reale nell’immaginario, l’immaginario nel metafisico, finché il metafisico si apre sul dubbio, al punto che una situazione non si impiglia o ingarbuglia nella successiva, ma si estende ad ampie pennellate, temperandosi in sensazioni, emozioni, sentimenti, come un composto chimico di passione e d’amore. Un tale processo della scrittura riflette il processo psicologico dei personaggi, di cui lo scrittore di Vorodež ci avverte fin dall’inizio, quando dice che il ricordo del bolscevico è come dimenticato dalla bambina, ma, in certi momenti, le riaffiora alla memoria, riflettendosi in un gesto condizionato, nell’interruzione di un’attività, in una sua più alacre esecuzione.

Mosca è una ragazza determinata, che ama le situazioni limite, come lanciarsi da un paracadute accendendosi una sigaretta. In ambito sentimentale, fa l’amore senza impegni secondo la propria interpretazione della vita comunista (per lei «l’amore non è il comunism»”, in quanto quest’ultimo è più duraturo e meno deludente), mettendo in crisi una serie di personaggi maschili, i quali, nella forma incompiuta del romanzo, assurgono a protagonisti, con il loro pensiero rivolto a una donna immaginaria, una sorta di emblema, un’illusione ossessiva e memorabile, né più e né meno della città che li ospita e che le ha dato il nome, con i suoi milioni di uomini, in cui un volto nella folla appare perfettamente irriconoscibile.

«Ted Hughes: "Guerra tra vitalità e morte"» di Nicola D'Ugo







Nella foto da sinistra, Stephen Spender, W. H. Auden, Ted Hughes, T. S. Eliot e Louis MacNeice nella sede londinese di Faber and Faber nel 1960. 





Per decenni, Ted Hughes ha dominato la poesia inglese come da una sorta di retroscena privilegiato, tanto da essere talvolta escluso – poiché era già stato tradotto in singole opere – da antologie significative italiane, come il nutrito volume Giovani poeti inglesi, curato da Renato Oliva ed edito da Einaudi nel lontano 1976. In quell'anno, molti dei poeti che avevano segnato i tratti più significativi di questo secolo erano scomparsi: si può dire che rimanevano ancora in vita solo Graves, Gascoyne e, dei Trentisti, Spender. Giovani poeti stavano dando volto alla nuova poesia inglese, come Larkin e Gunn. E gli irlandesi cominciavano a riconoscersi in un'altra letteratura, scaturita da un'altra terra, motivata da qualcosa di troppo recente per dirsi già Storia.

Nato nel 1930 a Mytholmroyd, nella valle del fiume Calder, nel sud dell'Inghilterra, Edward James Hughes esordì con la raccolta poetica The Hawk in the Rain (Il falco nella pioggia, 1957). Una foto di Mark Gerson del 1960 ce lo ritrae, bicchiere nella mano, con Eliot, Auden, Spender e MacNeice, durante un party della casa editrice londinese Faber & Faber. Una foto che segnalava il passaggio di staffetta, quanto mai corrisposto, di tre generazioni della poesia inglese, quella che ha dominato e segnato profondamente questo secolo letterario: un secolo che, con la morte del poeta inglese, pare ora chiudersi nel 1998, a poco più di un anno dalla fine del millennio.

La poesia di Hughes ha costituito uno dei momenti essenziali dell'incontro fra un mondo tecnologico che mutava rapidamente e una letteratura che aveva percorso le vie di uno sperimentalismo che, al più, si era rifatto al superamento delle tecniche intrinseche della scrittura letteraria e dell'arte. Da quel lontano 1957 ad oggi si sono andate diffondendo, a partire dai paesi anglosassoni, alcune delle tecnologie di comunicazione e di concezione dell'ambiente più rilevanti per la vita dell'uomo contemporaneo: dalla diffusione della televisione al lancio dei primi satelliti orbitali, dallo sbarco sulla Luna alla telecopia (il precursore degli odierni telefax), dalla diffusione delle videocamere a quella dei computer, dalla corsa al nucleare alle biotecnologie, dalla globalizzazione a Internet, dalla Guerra Fredda alla quella 'chirurgica' del Golfo.

«La poesia rurale di Consonni. Tra poesia in lingua e grammelot» di Nicola D'Ugo






 Vûs/Voci
 Giancarlo Consonni
 Einaudi
 Torino 1997
 EUR 9,30
 153 pp.
 ISBN: 88-06-14497-9





Vûs/Voci di Giancarlo Consonni (Einaudi, Torino 1997, lire 18.000) è un libro di poesie scritte –come tiene a precisare l’autore– in «una delle innumerevoli versioni rurali del milanese». Non trattandosi di un milanese letterario, ma giunto in forma orale, ha il vantaggio della corposità schietta di una lingua tenuta viva nella necessità di dire, a differenza delle grandi lingue letterarie, il cui lessico è per lo più ignoto ai parlanti delle stesse. È la lingua che parlano e parlavano i nostri nonni, attraverso cui passano miriadi di leggende che non adergono allo statuto di Storia: appartengono a quel mondo del «sentito dire» così minuziosamente riportato da Hawthorne ne La lettera scarlatta. 

Questo aspetto «orale» della scelta di Consonni gli dà modo di ricostruire un mondo linguistico e tenere in vita le voci, altrimenti destinate all’oblio, delle persone del luogo. La lingua adoperata, infatti, esorbita dall’ufficialità delle lingue letterarie, poiché queste hanno una loro tradizione tramandata in una scrittura, e sono codificate in una grammatica più controllata. Inoltre, esse hanno spesso un carattere istituzionale, che aggiunge all’elemento culturale di una lingua dei vivi la regolamentazione di un pensiero ufficiale, una canonizzazione istituzionale, una normativa, quindi, sia grammaticale che giuridica. Le lingue istituzionali tendono, in genere, più a imporre un freno alle innovazioni che a essere creative e aperte ai nuovi stimoli. Non pare un caso a nessuno che l’inglese non britannico (l’americano, l’irlandese, il gallese, il caraibico, il nigeriano ecc.) abbiano offerto il miglior contributo letterario di questo secolo, con i loro neologismi e le numerose importazioni di parole indigene o comunque contaminanti, a fronte di una compattezza espressiva  che non ha indebolito il carattere proprio di quelle letterature.

«Tra prosodia e immagine: Ezra Pound» di Nicola D'Ugo


In questo secolo la poesia, spronata dai grandi maestri dell’Ottocento, a partire dai simbolisti francesi, ha dato luogo alle più diverse manifestazioni espressive. Al di là dei responsi dei vari periodi circa le influenze sull’arte e sulla letteratura esercitate da un singolo autore –si pensi alla tardissima riesumazione dell’opera della poeta americana Emily Dickinson – è opportuno segnalare una tendenza fortemente motoria della poesia, ottenuta con mezzi prevalentemente a base fonica, e una statica, ottenuta anzitutto tramite immagini.

Se i calligrammi, le parole in libertà e la poesia concreta in genere hanno portato a un incontro più deciso di immagine iconica, suono e concetto, la letteratura in versi che si è avvalsa solo del mezzo linguistico –che è poi la più considerevole– si è diversificata puntando o sulle modalità prosodiche o sulle modalità di rimando iconico.

Motoria è da dirsi la scrittura timbrica o ritmica, fortemente improntata su occorrenze e ricorrenze temporalmente esibite, una scrittura già tradizionale ma che l’introduzione del vers libre ha fortemente riformato. Attenta a quest’aspetto, ma decisamente formata sull’altro versante, la poetica dell’immagine, o Imagismo, seppure abbia avuto esiti che si allontanarono molto dal loro intento iniziale, ci offre un limpido spaccato dell’attività poetica del Novecento riguardo ai propri propositi.

L’incontro di un iniziatore del movimento come Ezra Pound con la poesia cinese, di cui ci restano le splendide e libere traduzioni di Cathay, si incrociava se non altro con il Medioevo nostrano, di cui Pound era un appassionato conoscitore. Rileggere oggi Cathay ci permette intanto di avvicinarci a una mentalità della scrittura poetica non esclusivamente occidentale, ma che già nell’Occidente medievale dello Stilnovo trovava una formulazione risolutamente caratterizzata.

«'Girotondo' di Arthur Schnitzler al Teatro Eliseo» di Nicola D'Ugo


La versione di Girotondo (tit. or. Reigen, 1900) di Arthur Schnitzler, messa in scena da Pietro Carriglio in questi giorni al Teatro Eliseo di Roma, si presenta adorna, fin dal sipario ancora calato, di una veste klimtiana. Le betulle di Gustav Klimt, che velano la scena, affiorando e svanendo per l’intera rappresentazione, suggeriscono la doppia natura austro-ungarica di diletto e riservatezza, racchiudendo in un muro permeabile di tronchi verticali l’improvvisa lucentezza che macchia di chiarore il centro del dipinto: gioia, ma riservata, attorniata da un ammiccante separé arboreo, che nega accesso allo sguardo, ma non all’intrusione della carne. Gioia dei sensi e riservatezza, ossia quella mediocrità tutta particolare della Vienna di inizio Novecento, della cui pelle culturale ci restano le indimenticabili pagine de La marcia di Radetzky di Joseph Roth.

L’accostamento di Schnitzler e Klimt, due autori coevi, caratterizza questa versione di Girotondo. Il Klimt pseudo-paesaggista, qui scelto come leitmotiv scenografico, pulsa di una passionalità vitale, di pura energia, apparentemente conchiuso in una razionalità degli spazi; se non fosse che la passione, venendo prima e dopo ogni regolazione cosciente dell’uomo, ingloba la razionalità stessa, implodendo. In Klimt la vita è memoria di colori, non di linee. In termini classici, la scena rappresentata da Klimt è un’incessante sottomissione dell’apollineo al dionisiaco (e questo vale anche per Schnitzler). L’uso che si fa di Klimt in questa versione di Pietro Carriglio è decorativa, retaggio della nostra produzione di massa: oggetti floreali che conferiscono cromatismo a una scena del resto scabra. La scelta è rischiosa, anche se va indubbiamente incontro a un tentativo di rendere meno vieta l’ambientazione viennese del dramma schnitzleriano, privandolo dell’aura di più di un secolo fa. Eppure, per far questo, non sarebbero mancati esperiti espedienti: si sarebbe potuta utilizzare l’ambientazione anacronistica e contemporanea dell’Edoardo II di Derek Jarman; o insaporire il dramma di un colorito locale, come nel film La Ronde di Max Ophüls, versione francofona di Girotondo, così ricca di gastronomia e impressionismo pittorico.

«W. H. Auden: 'In Memory of W. B. Yeats.' L'uomo, la natura, la memoria della scienza e dell'arte» di Nicola D'Ugo








Non era interesse precipuo di W. H. Auden la morte in quanto tale. Ma ne richiamava spesso il tema [1]. Al di là o al di sotto della vita, o dentro come un’ombra che passi sul viso una volta e penetri ineludibilmente attraverso gli occhi fino al fondo dell’anima, la morte non era l’altra faccia della vita, la croce dietro la testa. Né la croce nascondeva una testa. L’uomo vivo e l’uomo morto non rappresentavano una variazione connotativa, ma due entità risolutamente diverse, di cui alcuni punti prendono a riflettersi le loro proprietà a distanza, così come tra due uomini vivi si possono ravvisare proprietà comuni senza che le entità siano identiche.

Questa visione è possibile secondo uno scarto fra la massa e gli individui che la compongono, segnalando diligentemente una mente che sostiene una memoria collettiva, che dai molti è resa possibile, ma la cui essenza non è partecipata appieno da nessuno. Ed è anche dalla memoria collettiva che la memoria di un uomo può prendere forma, senza che la persona di questi sia mai stata direttamente conosciuta. Al di là dei raggiri del problema della morte, senza cioè scansare l’ostacolo con la facile conseguenza di rifarsi ai luoghi comuni, rispettando o la tradizione o le istanze intellettualistiche di uno sperimentalismo letterario, Auden ha preferito prendere una via diversa, percorrendo una serie di tematiche contemporanee ispirate dalla morte di una grande figura del panorama non solo letterario, ma storico.

In questo modo, ci ha indicato che la morte di un uomo è il momento preciso in cui due entità, prima unite sotto un qualche aspetto, prendono a seguire due destini sempre meno condivisibili, come per uno strappo, una frattura incalcificabile di un frammento d’osso che resta e di uno che se ne va e non si unirà più al corpo. Un uomo che muore è, per definizione, ancora vivo. La frattura della morte, invece, nel suo lascito, genera due forme, una aperta ai quattro venti, rilocabile, che tende entropicamente a mutarsi, e un’altra che può mutarsi per modalità affatto diverse. La prima è la fisicità del defunto e dei luoghi su cui egli, da vivo, aveva esercitato la propria influenza, generando, muovendo, commuovendo, suggerendo, consigliando, ordinando: penetrando, insomma, nella memoria singola e dinamica dei vivi e delle cose, secondo le sue manifestazioni biologiche e culturali. La seconda, che più poggiando su supporti fisici indifferenti maggiore ne risulta l’integrità formale, sempre salva nella concretezza di una sua integrità formale preunitaria e più generale (preunitaria in quanto la forma generale precede qualunque particolarità interpretativa, che diremo di volta in volta unitaria, e resta nel suo genere fuori da un’unità di comprensione estetica), non fa parte della fisicità dell’uomo che le ha dato origine.

14 settembre 2009

«Seamus Heaney: una voce d'Irlanda di fine secolo» di Nicola D'Ugo e Piero Vaglioni


All'annuncio del conferimento del Nobel 1995 per la letteratura c'è stata in Italia tutta una rassegna di articoli imbarazzanti, particolarmente perché poco avevano a che vedere con l'opera del destinatario del premio e tantomeno con il senso dell'attribuzione. Il poeta e saggista irlandese Seamus Heaney non è né autore di poca fama nell'ambito della letteratura in lingua inglese, né il premio è in sé rivolto ad autori la cui opera sia di tale pregio universale da lasciare tutti contenti.

La reazione immediata nella provincia Italia fu quella dell'opposizione all'irlandese da parte di coloro che speravano che in quest'ultima premiazione il conferimento andasse all'italiano Mario Luzi (reduce dalle polemiche avanzate da Joseph Brodsky), ma ben presto si fece largo uno stuolo di 'conoscitori' di Heaney che accrebbe in dismisura una polemica di basso rango. Anzitutto perché né gli uni né gli altri seppero indicare i pregi e le motivazioni che sottostavano la scelta degli accademici di Svezia.

Riguardo al secondo punto, quello delle motivazioni, è ovvio che, nell'ambito della letteratura in lingua inglese, Seamus Heaney veniva scelto per ragioni non molto diverse da quelle che ispirarono, settant'anni prima, la premiazione di William Butler Yeats, e cioè ragioni d'ordine politico.

Ciò non vuol dire che l'indipendenza irlandese del 1921, perfezionata nel 1949, e il cessate il fuoco unilaterale e a tempo indeterminato dell'Ira (Irish Republican Army: l'Esercito Repubblicano Irlandese) del 31 agosto 1994 abbiano a offuscare in alcun modo il merito di questi due poeti. Sarebbe troppo lungo l'elenco degli scrittori meritevoli del riconoscimento che sono stati scavalcati da altri anche di poco pregio e di minore conseguenza (Proust, Musil, Brecht, Céline, Joyce, Pound, Borges, Ungaretti, Valéry, Pessoa, Rilke). Solo pensare che Maria Grazia Deledda sia fra i Nobel e fra questi non compaia Virginia Woolf la dice oltre misura.

12 settembre 2009

«'L'agguato immortale' di Maria Grazia Lenisa» di Nicola D'Ugo





 L'agguato immortale
 Maria Grazia Lenisa
 Bastogi
 Foggia 1995
 EUR 9,30
 160 pp.
 ISBN 88-86-45239-X





L'esser donna e al tempo stesso essere poeta, avere come modelli per la propria dizione una schiera innumerevole di uomini e una sparuta messe di scrittrici che nei secoli, nella spigolatura che i secoli ci consegnano, hanno cercato nel lessico, nelle tematiche e finanche nel ritmo maschile la propria lingua, di raccontare se stesse e i propri moti più intimi, le proprie vicissitudini, le proprie indicibili fantasie, non è affatto facile, e il risultato lo dimostra. Le voci femminili più note della poesia italiana sono relegate a genere, hanno un territorio segnato in cui muoversi e dire e, spesso, trattando uno dei più alti temi della letteratura (che è il più importante tema della vita), l'amore, si sono dovute accontentare delle metafore che il linguaggio letterario maschile gli forniva o cantare lieve lieve con flebile voce circostanze minime, quasi diaristiche.

Non dovunque si è avuto questo fenomeno, non negli Stati Uniti, la cui autocoscienza femminile ha espresso poetesse celeberrime come Sylvia Plath e Anne Sexton, le due confessionaliste di Alvarez, l'una bardico funambolo di "Fever 103°" o del «great strip-tease» da ribalta di "Lady Lazarus" nel postumo Ariel (pubblicato dalla Faber and Faber nel 1965), l'altra straordinaria voce emancipata che presta la metafora alle verità più intime delle proprie pulsioni quotidiane (All My Pretty Ones, Boston 1962; Love Poems, Houghton Mifflin, Boston 1969). È un peccato che si debbano attribuire etichette quali poesia senza bardo in riferimento alla Cavalli, che peraltro ha spunti e motivi pregevolmente esibiti, o cercare nelle poetesse tragicamente finite come Antonia Pozzi una rilettura garzantiana postuma e suscettibile di sospetti. La voce stessa di Amelia Rosselli, riconoscibilissima, non faceva che rimanere dentro uno spazio tematico neutro, uno spazio in cui poteva muoversi la voce maschile e femminile allo stesso modo, che non scavava e creava un linguaggio femminile alto, non si denudava in quanto voce femminile.

«'Cortesie per gli ospiti' di Ian McEwan» di Nicola D'Ugo





 Cortesie per gli ospiti
 Ian McEwan
 Einaudi
 Torino 1997
 Traduzione di Stefania Bertola
 EUR 8,64
 140 pp.
 ISBN: 88-06-14386-7 




Dal 1983 a oggi la casa editrice torinese Einaudi avrebbe avuto modo di riprendere questo romanzo di Ian McEwan (nato nel 1948) e ritoccarne la traduzione. Invece la ripropone con tutti i difetti d'allora, rendendolo ora noioso e datato. Infatti, se nel caso dell'originale inglese, The Comfort of Strangers (1981), l'autore supplisce alle carenze di quell'approfondimento tematico che ha fatto dell'evoluzione del pensiero femminista uno dei capisaldi della cultura e del dibattito del secondo Novecento, lo si deve alla sua capacità di offrire uno stile sicuro, che sa cogliere la grande lezione dell'asciutto realismo di Ernest Hemingway e ricondurla oltre le cronologie del maestro.

Antecedente alle improbabili e provocatorie ipotesi di Will Self, ma posteriore di decenni alle riflessioni virali di William Burroughs, McEwan tenta in questo breve romanzo –che ha per protagonista una coppia di turisti inglesi in vacanza all'estero (Colin e Mary) avvicinati da uno sconosciuto del luogo (Robert)– di porre in relazione le nuove istanze del rapporto amoroso con i movimenti sadomasochistici della fine degli anni settanta: quella sorta di carnaio che in arte si ritrova nella figura parallela di Hermann Nitsch. In questo senso, il romanzo conserva l'aura tematica del proprio tempo.

La storia è condotta senza scossoni e colpi di scena eclatanti: aleggiano vagamente solo strani indizi, neppure troppo inquietanti, tutti stretti in pochi particolari. La minuzia descrittiva quasi ipermetonimica ha il pregio di indirizzare l'attenzione del lettore innanzitutto sull'aspetto visivo e già quasi cinematografico, muovendosi come una macchina da presa o uno sguardo reale fra un personaggio e l'altro. È qui che meglio si notano nell'originale le doti espressive di McEwan.

«Nuova poesia italica in Marcoaldi» di Nicola D'Ugo


In Celibi al limbo (Einaudi, Torino 1995), Franco Marcoaldi ci offre una poesia autoironica, talvolta amara, schivando con l’arguzia buffonesca ogni pretesa di lirismo serioso, di letteratura alta, di sperimentalismo estroso, come vorrebbe invece la più nota poesia del secondo Novecento. Ciò che mi ha colpito di questo autore è il gioco simpatico e imperfetto delle rime, come fiori o stelle che sboccino nella testa lungo il fiume della sensazione. Una sensazione che sa tenersi, o meglio perdersi e ritornare, in un contesto riconoscibile, in un’Italia fatta di amici, illusioni, canzonature, attese e delusioni.

La poesia, con Marcoaldi, sembra ritornare a questo contesto contemporaneo, di cui ci avevano già raccontato altri linguaggi, anzitutto quello cinematografico di Moretti e quello fumettistico di Pazienza. L’Italia di Marcoaldi non è un orto montaliano, in cui l’esistenza si consuma e la vita si brucia, e non è neppure quell’Italia posteriore segnalata da Pagliarani ne La Ragazza Carla, in cui depressione e immigrazione rappresentano il contesto sociale entro cui matura, nel dolore, il boom economico degli anni sessanta. Qui ciò che si consuma sono i momenti, ciò che brucia è il desiderio, in rapida consunzione. La vita non è disillusa, ma si illude e disillude, per illudersi ancora. Il mito non è né la Rivoluzione, né la Lotta Sociale, ma, come scrive Marcoaldi, «regina Fica»:

«'V. e altre poesie' di Tony Harrison» di Nicola D'Ugo


[Harrison, Tony, "V" e altre poesie, Einaudi, Torino 1996, XXII-194 pp.]

Tony Harrison, nato a Leeds nel 1937, è uno dei più noti poeti inglesi. Per lui fare poesia è prender atto della globalizzazione degli interessi extranazionali da un lato e, dall'altro, assumere, attraverso l'espressione poetica, la propria posizione. Il suo linguaggio, a partire dal lessico, è quello del parlante comune, le sue riflessioni sono rivolte al lettore comune.

La sua non è poesia di ricerca espressiva, non più di quanto il sacrificio personale di qualunque scrittore richieda: è piuttosto un mezzo che permetta di riflettere con più intensità di quanto l'usa-e-getta della cronaca e dei proclami televisivi possano fare, ondeggianti gli uni sugli altri, persi in un mare di significazioni frammentarie, contraddittorie, superficiali.

A questo, egli oppone la sua estetica, trovando congeniali pubblicazioni sui quotidiani inglesi, come ad esempio, quelle sul Guardian del 5 e 18 marzo 1991, entrambe dedicate alla Guerra del Golfo: "Initial Illumination" e "A Cold Coming".

«'Poesie scelte' di Seamus Heaney» di Nicola D'Ugo


Poesie scelte di Seamus Heaney non si propone, già programmaticamente, quale antologia dell'opera del poeta nordirlandese. Punta invece, e fa bene, alla diversità interpretativa dei quattro traduttori (Roberto Sanesi, Gilberto Sacerdoti, Nadia Fusini e Francesca Romana Paci), raccogliendo in altrettante sezioni il loro contributo, come se ognuno di essi avesse avuto fra le mani il proprio Heaney e, dalle singole raccolte originarie, avesse scelto di proporre ciò che gli pareva più rappresentativo, cercando di evitare i "doppioni". Così facendo, il volume è un omaggio a Heaney e ai suoi traduttori e perde un po' di quell'aspetto archeologico e annoso proprio dei ritardi d'importazione degli autori stranieri, e per lo più con grossolane incette che non si sa mai da dove prendano piede.

Va subito detto che il lavoro cui si sono trovati di fronte questi interpreti è stato assai arduo e i tempi ristretti: non ci viene presentato, infatti, né il capolavoro North (del 1975, di cui si può qui leggere l'omonimo componimento), né si è attesa l'uscita del recentissimo The Spirit Level (Faber & Faber, London-Boston 1996). L'editore Marcos y Marcos, con questa silloge, ha puntato sul sicuro, proponendo innanzitutto il Premio Nobel del 1995, con le ovvie implicazioni che un tale premio garantisce. Il rischio cui sono andati incontro i traduttori è stato scongiurato per tre quarti, con buoni esiti da parte di Fusini, che ha interpretato mirabilmente e con amore la difficilissima "Punishment" (Punizione).

9 settembre 2009

«Gli aspiranti eroi dell'Irlanda. Eroismo e misoginia in Queneau» di Nicola D'Ugo





 Troppo buoni con le donne
 Raymond Queneau
 Einaudi
 Torino 1998
 Traduzione di Giuseppe Guglielmi
 EUR 7,50
 160 pp.
 ISBN: 88-06-14914-8





"–  Bzzz, fa la bomba."

La citazione che fa da epigrafe a questo articolo non è una battuta presa da un libro o da un buontempone in vena onomatopeica, ma è l’intero Capitolo LXII di un altro "eroico" romanzo di Raymond Queneau: Troppo buoni con le donne (On est toujours trop bon avec les femmes), pubblicato a Parigi nel 1971. Il disastro causato da una cannonata diretta ai protagonisti vien così anticipato con il semplice sibilo della bomba che viaggia dal cannone di una nave inglese verso un ufficio postale irlandese: da qui a lì, fra il desiderio di colpire bene il bersaglio e il timore d’essere colpiti. A mezz’aria, il semplice sibilo è addirittura impersonale: un oggetto-bomba che fa il volo cui lo hanno destinato, ormai irreversibile da chi lo ha lanciato e inevitabile per chi lo riceva.

Il capitolo risulta però molto comico: quello che lo precede ci aveva introdotto dei personaggi che alla propria pelle ci tengono assai. L’informalità e addirittura la mancanza di passione che ci mette lo scrittore nel dirci che, dopo tante bombe cadute a vuoto, ne è partita una che già sappiamo che ha il tiro aggiustato, rappresenta la completa indifferenza che il narratore ha per la sorte dei suoi protagonisti, di quei personaggi che egli stesso ha inventato (e quindi saranno in qualche modo importanti), e accende in noi la curiosità di sapere quello che gli capiterà.

Raymond Queneau, il fine pensatore, vive anzitutto nel suo linguaggio, fatto di una poesia e materialità espositiva che saltano dal comico al sentimentale, dallo sboccato all’aulico, dall’intraprendente al nostalgico, secondo dei movimenti dell’animo alterabili quanto lo sono quelli degli uomini tutti e, in particolare, dei suoi personaggi.

«Arthur Schnitzler e l'insostenibile insicurezza dell'immaginazione. 'Doppio sogno'» di Nicola D'Ugo


Arthur Schnitzler,
Doppio sogno,
Adelphi, Milano 1998.
A cura di di Giuseppe Farese.
131 pp. EUR 8,00

«Non si può ipotecare il futuro.»
Arthur Schnitzler, Doppio sogno

Traumnovelle di Arthur Schnitzler, ovvero Doppio sogno, è un romanzo in bilico fra il sogno e la realtà, nell’avventura immaginativa del protagonista, il medico trentacinquenne Fridolin, sospinto verso situazioni nuove, e sempre insondate fino in fondo, da un impellente desiderio di riscattarsi.

A partire dalle «due maschere in domino rosso» incontrate la sera prima a una festa, il protagonista recupera nella memoria la «ragazza giovanissima» della spiaggia in Danimarca, già annunciando il carattere più simbolico che reale che lo porterà a una rassegna di incontri amorosi con la figlia di un paziente, Marianne, «seduta ai piedi del letto» del padre appena deceduto, con la «passeggiatrice» Mizzi, con la «pazza» Pierrette, con la donna mascherata che si sarebbe «sacrificata» per lui in una segreta villa libertina. Sono per lo più, lo si noti, figure giovani. La bagnante pare al protagonista «giovanissima, forse quindicenne.» Mizzi è «una creatura graziosa, ancora molto giovane, pallidissima, le labbra tinte di rossetto» e ha «diciassette» anni. Pierrette è una «ragazza graziosa e giovanissima, quasi una bambina.» Marianne «tre o quattro anni fa, aveva ventitré anni», mentre la donna mascherata resta anonimamente senza volto e senza età: «ombra fra le ombre» simile «a una diciottenne come a una trentottenne.»

«'Foglie d'erba 1855' di Walt Whitman» di Nicola D'Ugo





 Foglie d'erba 1855
 Walt Whitman
 Marsilio
 Venezia 1996
 A cura di Mario Corona
 Testo originale a fronte
 EUR 20,66
 432 pp.
 ISBN 88-31-75895-0



Uomo ottocentesco, ma padre del modernismo del Novecento, autodidatta e fondatore della nuova poesia americana, amante dell'Opera italiana e fautore di un'arte al di sopra della tradizione, artista che fa della natura il suo punto di riferimento, dell'uomo comune il suo oggetto d'ammirazione e il suo interlocutore, delle movenze prosastiche del verso la sede della sensualità espressiva, del concetto il luogo generale a cui si riconduce la multiforme materia, Walt Whitman (1819-1892) si ritrova tutto in una sola opera Leaves of Grass (Foglie d'erba), incessantemente riveduta, fino all'edizione definitiva del 1891-92, che ne costituisce il documento testamentario. Questa, pubblicata ora da Marsilio, è invece la prima edizione del 1855, allora definita da Emerson «miracolo».

L'opera è di per sé magistrale, anticipata da una sorta di prefazione in prosa, che Whitman non volle più porre nell'edizione del 1891-92. La celebrazione dell'uomo e del poeta, il primato dell'uomo comune americano sul suo rappresentante politico, l'ottimismo riposto nelle possibilità individuali e collettive, il senso di fratellanza coi deboli, il dispregio delle ricchezze, l'ammonimento agli Stati affinché non tradiscano le aspettative della «nuova nazione» e «razza di razze», possono lasciare oggi stupiti rispetto a certi esiti delle vicende politiche americane, se è vero che a Foglie d'erba ci si riferisce come alla Bibbia Americana.